C’è un’Italia che non si riconosce nella facile demagogia che assale qualunque opposizione a qualsiasi Governo. Questa Italia guarda con disincanto, e anche con un po’ di rassegnazione, alle proposte politiche degli ultimi anni, che non solo non risolvono i suoi problemi ma quando è possibile li aggravano. Questa Italia ha anche deciso di non andare a votare, di non partecipare allo stanco rito di apporre una croce su simboli che non rappresentano i suoi legittimi interessi e con i quali, però, vengono eletti al Parlamento personaggi sconosciuti, che poi rendono conto delle loro azioni solo ai rispettivi capi.
È l’Italia di Panfilo Gentile, già segretario del Partito liberale italiano insieme a Mario Ferrara e a Manlio Lupinacci, che nel suo Democrazie mafiose – nel 1969 – denunciava la decomposizione dei partiti a nicchie di potere. Questa è diventata l’unica vera maggioranza politica che continua a crescere con consapevolezza e che guarda, quando non ha altro di meglio da fare anche se con aristocratico distacco, i talk-show in cui gli esponenti dei vari schieramenti fanno a gara a fare la battuta più efficace, con la speranza di raccogliere audience, così da essere invitati alla puntata successiva e saziare il proprio egotismo.
Questa Italia è colta, laboriosa, consapevole. E ha ormai capito molto di quello che gira intorno al teatrino della politica nostrana, in cui gli attori spesso si scambiano i ruoli solo per rinfrescarsi l’immagine. Questa è la Terza Italia, espressione che il sociologo e accademico dei Lincei, Arnaldo Bagnasco, utilizzò in un suo saggio del 1977 per descrivere il tessuto socio-economico delle piccole e medie imprese, diverso da quella contadino e da quello della grande industria.
Un blocco sociale concentrato in un’area del Paese. Infatti, alla tradizionale dicotomia tra Nord e Sud, rispettivamente la Prima e la Seconda Italia, egli contrapponeva uno schema a tre. La Terza Italia di Bagnasco comprendeva le regioni del Triveneto (Trentino-Alto Adige, Veneto, Friuli-Venezia Giulia), le regioni centrali (Emilia-Romagna, Toscana e Umbria) e le Marche. In questa ottica lo studioso mise in luce quanto fossero determinanti le reti, i rapporti orizzontali rispetto alle gerarchie verticali e il ruolo delle istituzioni locali rispetto ai processi decisionali calati dall’alto.
A questa modellizzazione, che ha caratteristiche geografiche, legata alla concentrazione industriale nei distretti produttivi, ne possiamo affiancare un’altra che tralascia le peculiarità tipiche di un territorio e ne acquista una più diffusa, legata alla condizione economica del singolo, al suo livello di istruzione, alla sua cultura e al grado di consapevolezza dei fenomeni sociali di cui è al contempo osservatore ed attore.
Quest’altra Terza Italia è costituita da un ceto medio vessato dalle tasse e dalla burocrazia, indaffarato a cercare di mantenere un livello di vita accettabile e in linea con i suoi valori e le sue aspettative. È composta da docenti, funzionari statali, liberi professionisti, piccoli proprietari, studenti universitari (quando liberi da eco-ansie e ideologismi vari), da imprenditori agricoli a titolo principale e da medi e piccoli impresari diffusi in tutta Italia. Ma quali sarebbero le prime due Italie, allora? Bene, sono quelle che hanno goduto di tutte le facilitazioni dello stare dentro il potere pubblico.
La prima è legata all’idea di mantenere lo “status quo”, la propria condizione privilegiata e, in fin dei conti, appagata della situazione, che ogni tanto riemerge e alza la voce solo perché spaventata di un futuro per lei incerto. È un coacervo di interessi che sgomita per mantenere staticamente lo spazio che ha conquistato alzando steccati, muri e recinzioni ideologiche. Potremmo dire che è atemporale, nel senso che rifiuta aprioristicamente l’idea che la vita è mutamento. Fa di tutto perché ciò non accada, perché ritiene che nel cambiamento si annidi “satana” e le sue tentazioni. Bigottamente religiosa, ipocritamente bacchettona con gli altri e libertina con se stessa. In privato miscredente, agnostica o addirittura atea quanto devota e farisea in pubblico.
La seconda Italia è invece quella “progressista”, più chiusa ancora della prima ai cambiamenti. Auto-imprigionatasi in un futuro del tutto eventuale, immaginario, utopistico e però tenebroso. Più furba nell’accettare a denti stretti i mutamenti a cui sa di non potere resistere, molto più smaliziata della prima. Verbosa e parolaia. Dialetticamente scorretta. Pronta a piegare il diritto alle sue esigenze. Egoista e invidiosa. Attaccata a nessun valore in particolare, anche perché mettendoli tutti sullo stesso piano senza alcuna gerarchia li svilisce tutti. E li usa tutti a suo piacimento, quando lo ritiene opportuno. Moralista per costituzione. Sa sempre qual è la cosa “giusta” in fatto di opinioni, modo di vestire, auto da guidare, cibo da mangiare, libri da leggere e così via di seguito all’infinito. Vuole imporre le sue idee come ecologicamente giuste, politicamente corrette ed economicamente sostenibili. Bacchettona anche lei in tutto quello che dice e poco in quello che fa. Sempre con l’indice alzato per additare, indicare e ammonire. Si mostra spesso trasandata e popolana solo per apparire intelligente e responsabile agli occhi di quelli che pretende di guidare e poi magari abita, beata lei, in lussuosissimi attici che si affacciano su Central Park. Una seconda Italia del “progressismo” che vorrebbe tutti, tranne lei, proletari e nessuno proprietario. Si commuove al momento giusto di fronte alle paturnie di una studentessa universitaria che, invece di stare a studiare, passa il suo tempo a lottare contro il cambiamento climatico. Questa Italia si pensa così formidabilmente intelligente e potente da essere in grado, con un decreto, di modificare persino i cicli naturali della Terra. Non crede nelle conseguenze inintenzionali delle azioni umane e pertanto ritiene che ci sia un legame diretto tra le disuguaglianze e le decisioni che si assumono in campo politico. È la stessa a cui Karl Marx ha insegnato a riparare a tutti i torti della storia con l’ingiustizia dell’esproprio della proprietà privata e la negazione di ogni libertà. Questa Italia è la peggiore espressione del dirigismo economico e dello statalismo politico, figlia dell’invidia sociale che le avvelena la mente e il cuore.
A queste due Italie si contrappone la Terza, che invece è l’altra metà del cielo, quella che si rifiuta di andare a votare e che ha perso fiducia prima nel corpo politico e via via nelle istituzioni democratiche. Uno dei fattori che l’ha disillusa è il fatto che sia stata abbandonata la via maestra del tentare di limitare e circoscrivere il potere dello Stato, del ritenere necessario avere istituzioni così solide che, anche quando governa il peggiore, lo stesso è messo in condizioni di fare meno danni possibili, perché l’individuo è al centro con tutti i suoi legittimi interessi e naturali diritti, come quello alla proprietà, alla casa e al risparmio.
La Terza Italia detesta i bacchettoni, gli ipocriti, i moralisti, i bigotti di tutte le latitudini culturali, religiose e politiche, e orgogliosamente se ne frega degli invidiosi. Vuole vivere in pace e libera, secondo le sue convinzioni. Crede nell’impresa personale, professa la critica come metodo, è sempre pronta a mettere in discussione se stessa e a ripartire dai propri fallimenti. Non ha soluzioni miracolose da proporre, ma idee da confutare. Pretende lo stesso rispetto che è disposta a concedere. Non sopporta alcuna intromissione nella propria privacy, né da parte dello Stato né da parte di chicchessia, webmaster compresi.
Questa è l’Italia di Dante Alighieri, di Giovanni Boccaccio, di Francesco Petrarca ma anche di Giordano Bruno, Galileo Galilei e Gioacchino Ventura, di Camillo Benso conte di Cavour, Marco Minghetti, Ruggiero Settimo, Francesco Ferrara e di tutti i difensori del libero pensiero mandati al rogo o ostracizzati come lo fu Benedetto Croce.
È quella delle tante case editrici indipendenti che editano autori scomodi o semplicemente poco sponsorizzati. Dei giornali liberi che ospitano tutte le opinioni, anche le più controverse, in nome del diritto di espressione. Delle emittenti televisive che danno voce e spazio anche ai piccoli partiti. È l’Italia che vorrebbe carceri più umane e meno legislazione. È quella del dubbio e della critica, non è quella della verità.
È l’Italia scanzonata e tragica di Mario Monicelli, Dino Risi, Luigi Comencini, Pietro Germi, Ettore Scola e Alberto Sordi. Per molti anni è stata rappresentata prima dai monarchici come Alfredo Covelli, poi da liberali come Roberto Cantalupo e Agostino Bignardi e più recentemente da Silvio Berlusconi.
È l’Italia del lavoro, che ogni mattina cerca di sbarcare il lunario destreggiandosi tra carovita, inflazione e restrizione del credito bancario grazie alle scelte discutibili della Banca centrale europea, torturata dalla burocrazia e vessata dalle tasse.
Ecco, a questa Terza Italia bisogna dare voce e rappresentanza. Questa potrebbe essere la mission di un rinnovato Partito liberale italiano guidato da Roberto Sorcinelli, anche aprendo a esperienze culturali e politiche che provengono da altre tradizioni, magari più libertarie, liberiste e se volete anche anarco capitaliste. Per questo l’idea, che ha proposto il filosofo ed editore Tommaso Romano a Palermo in occasione dell’assemblea aperta promossa dal professor Michele Gelardi (neo commissario per le provincie della Sicilia Occidentale del Pli) alla presenza del segretario nazionale, Roberto Sorcinelli e del presidente nazionale, Francesco Pasquali, di dare vita a una Consulta liberale che possa raccogliere intelligenze e personalità, anche non iscritte al partito, può essere una fonte notevole di accrescimento sul piano delle proposte e delle iniziative concrete di cui tenere in alto conto nell’azione politica, proprio per rappresentare questa Terza Italia.
C’è un enorme spazio che il Partito liberale italiano potrebbe conquistare. È quell’area che, una volta, si chiamava “la maggioranza silenziosa” dell’Italia “che lavora, produce e paga le tasse” e che portò alla marcia dei quarantamila a Torino nell’ottobre del 1980, in nome del diritto al lavoro dei ceti medi e che mise fine agli scioperi dei sindacati di sinistra, che impedivano ai lavoratori della Fiat di tornare in fabbrica alla loro onesta attività. La stessa Italia che con numeri (un milione), tempi e uomini diversi scese in piazza San Giovanni a Roma il 9 novembre 1996, alla manifestazione indetta dal Polo delle Libertà guidato da Silvio Berlusconi, Pier Ferdinando Casini e Gianfranco Fini. Il 2 dicembre 2006 i milioni furono due. Sarebbe una grande opportunità, per rimettere al centro dell’azione politica e delle istituzioni l’uomo con i suoi diritti e le sue aspirazioni, in nome del valore perenne della Libertà.
Nino Sala https://opinione.it/